Secondo appuntamento con le "Interviste Flash".
Questa volta ho pensato ad Antonella Monzoni, raffinata autrice modenese componente del collettivo fotografico Synap(see). Antonella da qualche anno ha intrapreso un'importante esperienza editoriale occupandosi della rivista Gente di Fotografia oltre che della collana di libri "I Quaderni di Gente di Fotografia"; con lei parleremo della sue esperienze legate all'editoria oltre che della sua ultima importante pubblicazione "Ferita Armena"
Questa volta ho pensato ad Antonella Monzoni, raffinata autrice modenese componente del collettivo fotografico Synap(see). Antonella da qualche anno ha intrapreso un'importante esperienza editoriale occupandosi della rivista Gente di Fotografia oltre che della collana di libri "I Quaderni di Gente di Fotografia"; con lei parleremo della sue esperienze legate all'editoria oltre che della sua ultima importante pubblicazione "Ferita Armena"
Immagino che la tua esperienza editoriale, ti dia la possibilità di osservare la fotografia, da un punto di vista privilegiato; che opinione ti sei fatta del panorama fotografico italiano?
La rivista Gente di Fotografia si occupa di autori italiani e stranieri, noti ed emergenti, quindi il panorama è quanto mai ampio ed internazionale. Per quanto riguarda lo scenario italiano lo trovo e l’ho sempre trovato molto vivace e interessante. I fotografi italiani sono molto talented, ancor più perché la maggioranza di loro sono autodidatti, hanno imparato da soli, e con disciplina, l’arte della fotografia.
Cosa significa per te essere editori oggi?
Nello specifico della mia esperienza significa “passione pura” e “grande condivisione”. Da tempi abbastanza recenti mi occupo della rivista Gente di Fotografia e della collana dei libri "I Quaderni di Gente di Fotografia".
La rivista guarda la fotografia a 360 gradi, attraversando tutti i generi, dal reportage al concettuale, ai ritratti e alle foto di viaggio. Un team di collaboratori offre contributi di approfondimento importanti che accompagnano la pubblicazione di portfoli di fotografi. Posso sostenere che si tratta di un progetto comune dedicato alla fotografia.
Per quanto riguarda la collana è molto interessante collaborare con fotografi che sentono la necessità di pubblicare piccoli volumi fotografici di grande qualità, che si prestano sia come libri che come cataloghi in accompagnamento alle mostre.
Quali sono le principali differenze tra il mercato italiano e quello estero?
Parlo della Francia perché ho spesso occasione di andarvi e ogni volta provo sentimenti opposti.
Felicità perchè incontro un palpabile interesse nei confronti della fotografia: festival stravisitati, mostre superpiene, code agli ingressi di eventi e manifestazioni, forte interesse per il collezionismo.
Dispiacere perchè questo non accade in Italia.
La tua produzione fotografica è condizionata da quella editoriale?
Negli ultimi tempi non riesco a concludere un lavoro fotografico senza pensare ad una pubblicazione editoriale, anche minima. Il portfolio mi sta “stretto”, e lo dice una che è figlia del portfolio, che grazie al portfolio è cresciuta, si è confrontata, ha anche avuto soddisfazioni e riscontri importanti. Ma adesso sto vivendo questa fase. Non necessariamente un progetto lo devo chiudere con pubblicazioni importanti come il libro “Ferita Armena”, basta anche un “dummy”. Ora sento necessaria una struttura di racconto più ampia che magari unisca alla fotografia altre forme artistiche o tecniche. Il tutto per rendere il racconto più intenso e fruibile.
La tua è una fotografia con una forte impronta umanista; è sempre stato così?
Sono nata e cresciuta con il reportage, anche se ho iniziato a fotografare “tardi”, in età matura, ho però “guadagnato” tempo perché da subito ho capito cosa e come mi piaceva fotografare.
Ora, dopo quindici anni sto probabilmente cambiando la cifra stilistica, portando a casa scatti nei quali l’umano non è necessariamente fotografato ma comunque è ben presente. Nel mio ultimo lavoro sono andata sul Delta del Po, per un progetto del Collettivo di cui faccio parte (Synap(see) - ndr), dedicato ai Parchi italiani e sono stata piacevolmente colpita quando più persone hanno trovato i paesaggi da me fotografati estremamente “umani”.
Ferdinando Scianna disse: “se si parte dalla fotografia non si arriva in nessun altro posto che alla fotografia”; tu quando stai per iniziare un nuovo lavoro da dove parti?
Dallo scrivere il progetto, pianificare i contatti, studiare la logistica con mappa alla mano. Poi trovo aiuto nelle letture di romanzi, saggi, articoli su internet che possono avere una relazione con la mia indagine, qualunque genere essa sia.
Trovi che la fotografia contemporanea sia condizionata da pregiudizi e stereotipi?
Certo, ma come tutti i segmenti artistici che accompagnano il nostro contemporaneo. Spesso si giudica un autore in maniera errata, senza conoscerlo in modo approfondito, è importante ascoltare il vissuto di ognuno, gli incontri – anche quelli organizzati da realtà come il Collettivo70 di cui fai parte – sono occasioni d’oro, grazie alle quali si può solo crescere.
“Fotografiamo quello che siamo”, quindi è onesto non giudicare senza conoscere l’altro.
Veniamo alla tua ultima pubblicazione; quanto conoscevi dell’Armenia e del genocidio prima di realizzare “Ferita Armena”?
Onestamente ti dico che conoscevo il 50% di quello che sono riuscita a pubblicare. L’altro 50% l’ho appreso sul campo, parlando con le persone, ascoltando le loro storie, acutizzando i miei sensi all’ennesima potenza. Ero una spugna e sono riuscita a entrare nella realtà di un popolo che non può accettare di non veder riconosciuto un genocidio subìto cento anni fa, è una ferita ancora aperta e fa troppo male. Poi ho trovato importante riportare anche le altre ferite del popolo armeno tangibili al mio sguardo come la guerra con l’Azerbaijan, l’affiliazione all’Unione Sovietica, il Monte Ararat in territorio turco, etc.
Cosa ti ha spinto ad affrontare un tema così importante ed imponente?
L’innamoramento per questa storia, come del resto tutte le storie che incontro, piccole e grandi esse siano e di cui puntualmente mi innamoro. Fotografare ti permette di “scoprire”, è un grande privilegio.
Quando si affrontano temi forti, è facile lasciarsi coinvolgere, anche emotivamente; pensi che un fotografo debba lasciare che ciò accada o ritieni che possa rivelarsi un errore?
Non è un errore, è inevitabile. Il fotografo ritrova dentro ai temi che affronta, anche quelli forti come dici tu, un po’ di se stesso, del suo vissuto. E ci si butta a capofitto. Senz’altro è utile il distacco una volta finito il lavoro, prima o durante l’editing, quella forse rimane la parte più difficile del lavoro. Quando le fotografie ti riportano ancora l’odore del posto o del momento … è dura distaccarsene.
Pensi di essere riuscita a raccontare tutto o vorresti aggiungere altre pagine al tuo racconto?
Se me lo chiedi per “Ferita Armena”, il racconto per me si è chiuso nel momento che ho pubblicato il libro, e mi fa piacere che sia avvenuto nell’anno del centesimo anniversario del genocidio del popolo armeno, in qualche modo ho contribuito a una maggiore conoscenza di questa tragedia che stranamente ancora oggi non è molto nota.
Quando si scatta per realizzare un reportage come questo, è più importante mantenere una visione univoca e complessiva del lavoro, oppure concentrarsi sui singoli episodi per poi rintracciare successivamente il filo conduttore che li lega?
Se si lavora con coerenza non è necessario scindere i due concetti. Ogni singolo episodio, ogni piccola storia o incontro ti porta poi a tessere un’unica tela.
Hai lavorato da sola?
Mi sono avvalsa della collaborazione di Victorya Mangasaryan, una professoressa armena, e delle sue due giovani figlie, le ho conosciute durante il mio primo viaggio in Armenia. Loro più di tutti mi hanno fatto conoscere L’Armenia a 360°, dalle tradizioni alla politica, camminando su territori tormentati, a partire dai cimiteri, troppi cimiteri....
Dopo essere riuscita a realizzare un lavoro così importante, ti senti più appagata o stimolata ad iniziare la prossima sfida?
Ho sempre voglia di mettermi alla prova realizzando qualcosa di diverso, di farmi magari del male, ma cerco di indagare temi differenti.
Ma in fondo, credi che un lavoro come questo possa avere una fine?
Dal profondo del cuore? … No.
La rivista Gente di Fotografia si occupa di autori italiani e stranieri, noti ed emergenti, quindi il panorama è quanto mai ampio ed internazionale. Per quanto riguarda lo scenario italiano lo trovo e l’ho sempre trovato molto vivace e interessante. I fotografi italiani sono molto talented, ancor più perché la maggioranza di loro sono autodidatti, hanno imparato da soli, e con disciplina, l’arte della fotografia.
Cosa significa per te essere editori oggi?
Nello specifico della mia esperienza significa “passione pura” e “grande condivisione”. Da tempi abbastanza recenti mi occupo della rivista Gente di Fotografia e della collana dei libri "I Quaderni di Gente di Fotografia".
La rivista guarda la fotografia a 360 gradi, attraversando tutti i generi, dal reportage al concettuale, ai ritratti e alle foto di viaggio. Un team di collaboratori offre contributi di approfondimento importanti che accompagnano la pubblicazione di portfoli di fotografi. Posso sostenere che si tratta di un progetto comune dedicato alla fotografia.
Per quanto riguarda la collana è molto interessante collaborare con fotografi che sentono la necessità di pubblicare piccoli volumi fotografici di grande qualità, che si prestano sia come libri che come cataloghi in accompagnamento alle mostre.
Quali sono le principali differenze tra il mercato italiano e quello estero?
Parlo della Francia perché ho spesso occasione di andarvi e ogni volta provo sentimenti opposti.
Felicità perchè incontro un palpabile interesse nei confronti della fotografia: festival stravisitati, mostre superpiene, code agli ingressi di eventi e manifestazioni, forte interesse per il collezionismo.
Dispiacere perchè questo non accade in Italia.
La tua produzione fotografica è condizionata da quella editoriale?
Negli ultimi tempi non riesco a concludere un lavoro fotografico senza pensare ad una pubblicazione editoriale, anche minima. Il portfolio mi sta “stretto”, e lo dice una che è figlia del portfolio, che grazie al portfolio è cresciuta, si è confrontata, ha anche avuto soddisfazioni e riscontri importanti. Ma adesso sto vivendo questa fase. Non necessariamente un progetto lo devo chiudere con pubblicazioni importanti come il libro “Ferita Armena”, basta anche un “dummy”. Ora sento necessaria una struttura di racconto più ampia che magari unisca alla fotografia altre forme artistiche o tecniche. Il tutto per rendere il racconto più intenso e fruibile.
La tua è una fotografia con una forte impronta umanista; è sempre stato così?
Sono nata e cresciuta con il reportage, anche se ho iniziato a fotografare “tardi”, in età matura, ho però “guadagnato” tempo perché da subito ho capito cosa e come mi piaceva fotografare.
Ora, dopo quindici anni sto probabilmente cambiando la cifra stilistica, portando a casa scatti nei quali l’umano non è necessariamente fotografato ma comunque è ben presente. Nel mio ultimo lavoro sono andata sul Delta del Po, per un progetto del Collettivo di cui faccio parte (Synap(see) - ndr), dedicato ai Parchi italiani e sono stata piacevolmente colpita quando più persone hanno trovato i paesaggi da me fotografati estremamente “umani”.
Ferdinando Scianna disse: “se si parte dalla fotografia non si arriva in nessun altro posto che alla fotografia”; tu quando stai per iniziare un nuovo lavoro da dove parti?
Dallo scrivere il progetto, pianificare i contatti, studiare la logistica con mappa alla mano. Poi trovo aiuto nelle letture di romanzi, saggi, articoli su internet che possono avere una relazione con la mia indagine, qualunque genere essa sia.
Trovi che la fotografia contemporanea sia condizionata da pregiudizi e stereotipi?
Certo, ma come tutti i segmenti artistici che accompagnano il nostro contemporaneo. Spesso si giudica un autore in maniera errata, senza conoscerlo in modo approfondito, è importante ascoltare il vissuto di ognuno, gli incontri – anche quelli organizzati da realtà come il Collettivo70 di cui fai parte – sono occasioni d’oro, grazie alle quali si può solo crescere.
“Fotografiamo quello che siamo”, quindi è onesto non giudicare senza conoscere l’altro.
Veniamo alla tua ultima pubblicazione; quanto conoscevi dell’Armenia e del genocidio prima di realizzare “Ferita Armena”?
Onestamente ti dico che conoscevo il 50% di quello che sono riuscita a pubblicare. L’altro 50% l’ho appreso sul campo, parlando con le persone, ascoltando le loro storie, acutizzando i miei sensi all’ennesima potenza. Ero una spugna e sono riuscita a entrare nella realtà di un popolo che non può accettare di non veder riconosciuto un genocidio subìto cento anni fa, è una ferita ancora aperta e fa troppo male. Poi ho trovato importante riportare anche le altre ferite del popolo armeno tangibili al mio sguardo come la guerra con l’Azerbaijan, l’affiliazione all’Unione Sovietica, il Monte Ararat in territorio turco, etc.
Cosa ti ha spinto ad affrontare un tema così importante ed imponente?
L’innamoramento per questa storia, come del resto tutte le storie che incontro, piccole e grandi esse siano e di cui puntualmente mi innamoro. Fotografare ti permette di “scoprire”, è un grande privilegio.
Quando si affrontano temi forti, è facile lasciarsi coinvolgere, anche emotivamente; pensi che un fotografo debba lasciare che ciò accada o ritieni che possa rivelarsi un errore?
Non è un errore, è inevitabile. Il fotografo ritrova dentro ai temi che affronta, anche quelli forti come dici tu, un po’ di se stesso, del suo vissuto. E ci si butta a capofitto. Senz’altro è utile il distacco una volta finito il lavoro, prima o durante l’editing, quella forse rimane la parte più difficile del lavoro. Quando le fotografie ti riportano ancora l’odore del posto o del momento … è dura distaccarsene.
Pensi di essere riuscita a raccontare tutto o vorresti aggiungere altre pagine al tuo racconto?
Se me lo chiedi per “Ferita Armena”, il racconto per me si è chiuso nel momento che ho pubblicato il libro, e mi fa piacere che sia avvenuto nell’anno del centesimo anniversario del genocidio del popolo armeno, in qualche modo ho contribuito a una maggiore conoscenza di questa tragedia che stranamente ancora oggi non è molto nota.
Quando si scatta per realizzare un reportage come questo, è più importante mantenere una visione univoca e complessiva del lavoro, oppure concentrarsi sui singoli episodi per poi rintracciare successivamente il filo conduttore che li lega?
Se si lavora con coerenza non è necessario scindere i due concetti. Ogni singolo episodio, ogni piccola storia o incontro ti porta poi a tessere un’unica tela.
Hai lavorato da sola?
Mi sono avvalsa della collaborazione di Victorya Mangasaryan, una professoressa armena, e delle sue due giovani figlie, le ho conosciute durante il mio primo viaggio in Armenia. Loro più di tutti mi hanno fatto conoscere L’Armenia a 360°, dalle tradizioni alla politica, camminando su territori tormentati, a partire dai cimiteri, troppi cimiteri....
Dopo essere riuscita a realizzare un lavoro così importante, ti senti più appagata o stimolata ad iniziare la prossima sfida?
Ho sempre voglia di mettermi alla prova realizzando qualcosa di diverso, di farmi magari del male, ma cerco di indagare temi differenti.
Ma in fondo, credi che un lavoro come questo possa avere una fine?
Dal profondo del cuore? … No.
Il libro: "Ferita Armena"
Malinconia, pioggia, neve, paesaggi battuti dal vento, miserevoli costruzioni sovietiche in disfacimento, cani che si azzuffano; e tanti, tristi fiori per terra, davanti alle aguzze lame del monumento del genocidio a Tsitsernakaberd, la collina delle rondini; ma sullo stesso sfondo vedi anche pugni alzati, come un simbolo dell’eterna lotta degli armeni perché si sappia, perché gli eventi terribili del 1915 non rimangano sepolti nell’oblio.
E poi gli sguardi, tanti sguardi: fieri, non sconfitti, ma sui quali pesa un’infinita, antica tristezza.
Malinconia, pioggia, neve, paesaggi battuti dal vento, miserevoli costruzioni sovietiche in disfacimento, cani che si azzuffano; e tanti, tristi fiori per terra, davanti alle aguzze lame del monumento del genocidio a Tsitsernakaberd, la collina delle rondini; ma sullo stesso sfondo vedi anche pugni alzati, come un simbolo dell’eterna lotta degli armeni perché si sappia, perché gli eventi terribili del 1915 non rimangano sepolti nell’oblio.
E poi gli sguardi, tanti sguardi: fieri, non sconfitti, ma sui quali pesa un’infinita, antica tristezza.